
E quattro. Sono quattro i libri per cui ho pianto. Per due di essi di dolore, quasi fisico. Il primo in assoluto è stato Una vita come tante, capolavoro letterario scritto da Hanya Yanaghiara. Ho desiderato proteggere Jude per tutto il tempo e ho versato lacrime amare, amarissime (leggetelo, vi prego, fatevi questo dono… piangerete, ma ne uscirete più ricchi). Poi è stata la volta di Orfani bianchi di Antonio Manzini. Mirta Mitea è diventata una delle mie più care amiche e ho sofferto con lei. Nel terzo caso si è trattato più di una lacrimuccia di nostalgia per aver lasciato Lila e Lenù. Mi sono entrate dentro quelle due, e girare l’ultima pagina è stato come salutare un amico che sai che non rivedrai mai più.
Il quarto pianto è stato di commozione. Non per Riccardino, alla cui morte mi sono interessata per pura curiosità, desiderio di caccia alla verità. In parte per Montalbano, uno dei commissari più amati di sempre. Tantissimo, ma proprio in maniera sconfinata, per Camilleri. È per lui che ho pianto alla fine di Riccardino. Per il dispiacere di aver letto la sua ultima pagina e di non trovarne altre.
Andrea Camilleri è stato un genio per tante ragioni. La prima è quella di aver creato una lingua tutta sua, un dialetto che sin da subito ho trovato comprensibilissimo nonostante io non abbia mai messo piede in Sicilia (cosa a cui dovrò porre rimedio asap). La seconda ragione è per aver ideato un personaggio che, vuoi o non vuoi, resterà nella storia della letteratura italiana. Complice anche il successo della serie tv, che in quanto a qualità non è da meno, a Salvo Montalbano ci siamo tutti un po’ affezionati. È di famiglia, insomma.
La terza ragione, e forse la più importante, è per ciò che ha saputo realizzare in quest’ultimo romanzo: un dialogo continuo dove autore e personaggio si confrontano, scambiandosi quasi i ruoli, prendendo l’uno il posto dell’altro.
Camilleri ha sempre detto che Montalbano sarebbe, in qualche modo, morto con lui. Ma è riuscito ad andare oltre, a fare molto di più: è tornato in vita lui, Nené. A un anno esatto dalla sua morte, riascoltiamo la sua voce al telefono con il commissario, ritroviamo i suoi pensieri, le sue convinzioni. Sembra di vederlo lì, vivo, all’altro capo del filo (toh, che citazione che mi è venuta fuori) a raccontarci il pirchì e il pircòme ha scelto di concludere la saga ambientata a Vigàta. Si è inserito nella storia, nero su bianco, in una sorta di dichiarato cammeo, si è reso personaggio ed è diventato immortale. Più di dieci anni prima di morire (questo romanzo è stato scritto quando di anni ne aveva ottanta) ha scelto di non morire affatto, ma di restare in eterno nelle sue pagine e, di certo, nel mio cuore.
Mi mancherai tantissimo, Nené. Proprio tanto.
Ma Sellerio è stata lungimirante, aveva forse pensato a ciò che avremmo provato noi lettori, a quanto saremmo stati tristi dopo aver concluso l’ultima indagine di Montalbano. E allora ha avuto la splendida idea di creare un piccolo catalogo di tutto ciò che Camilleri ha pubblicato con la storica casa editrice.

È stata una vera gioia scoprire, sfogliandolo, che pur avendo letto tantissimo di questo autore, c’è ancora molto altro da leggere, altri romanzi che andrò a recuperare e in cui mi tufferò per ritrovare ancora una volta e un’altra ancora la sua voce arragatata, la sua mente fina, e la sua bella, bellissima penna.