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IL COLIBRÌ, #recensione

“La sua vita ha sempre continuato a srotolarsi allo stesso modo: stando ferma per anni mentre quelle degli altri andavano avanti”

Ho letto il libro dell’anno, quello di cui tutti parlano e che è dato per favorito al premio Strega 2020. E lo vincerà, probabilmente.
Lo vincerà perché è un romanzo innovativo, diverso, che in qualche modo segna una tacca sull’asse della letteratura. Accanto ai tanti, troppi libri dallo stile e dalle trame tutte uguali, Il colibrì si pone come un faro di luce, questo è indiscutibile.
Merita la vittoria? Beh, a questo non so davvero rispondere, perché è un romanzo talmente complesso da costringermi a un’analisi separata dei suoi punti di forza e di quelli di debolezza.

Partiamo dagli aspetti positivi, che sono tanti.
Anzitutto, come ho già accennato, ha una struttura originale. È diviso in quarantasei capitoli, ognuno dei quali si differenzia dagli altri per stile, natura, lunghezza e registro. Si va dalla corrispondenza via email al flusso di coscienza, dalla narrazione in terza persona all’uso esclusivo del dialogo. Vi sono capitoli di una o due pagine e altri decisamente più lunghi e corposi.
Attraverso ognuno di essi scopriamo la storia di Marco Carrera, un oftalmologo che conduce quella che all’apparenza può sembrare una vita mediocre, ma che analizzata a fondo rivela tutta la sua straordinarietà. Un fattore, questo, che troviamo anche in Stoner, uno dei capolavori della letteratura contemporanea, ma per quanto Il colibrì sia certo un romanzo notevole, siamo ben lungi dal paragonarlo alla pietra miliare uscita dalla penna di John Williams.

Marco Carrera è il colibrì, appunto, un nomignolo che gli viene dato a causa di una condizione congenita che gli impedisce di crescere, fino a quando non lo farà di colpo, saltando le fasi intermedie che ogni essere umano passa. Con l’uccello di cui porta il nome, tuttavia, condivide anche altri aspetti. Primo fra tutti quella capacità di darsi tanta pena per restare esattamente dove si è.
Marco ha un matrimonio che è una farsa, una figlia attaccata a un filo, un’amante platonica, un fratello con cui non parla e tre distinti drammi familiari.
Ogni aneddoto raccontato in ordine sparso, senza seguire il classico andamento cronologico, ci fornisce qualche dettaglio in più sulla sua storia, su ogni sua relazione e sulla psiche, tutt’altro che ordinaria, del protagonista.
Si legge in pochi giorni, scorre facilmente e si rivela tutto sommato una lettura gradevole.

Ma veniamo ora agli aspetti che non mi fanno gridare al capolavoro.
Nella prima metà del libro, Veronesi ci prepara a qualcosa di eccezionale, semina briciole di pane che stimolano l’appetito del lettore e la sua curiosità per come andrà a finire. Peccato, però, che poi queste briciole le mangi qualcun altro, lasciando noi poveri lettori con l’acquolina in bocca scaturita dalla promessa di un lauto pasto e mai realmente appagata.
Ogni disastro nella vita di Marco ristagna in superficie, senza addentrarsi nelle ragioni che lo hanno portato a essere ciò che è e a compiere le scelte che ha fatto. Si sorvola soltanto, sui fatti salienti della sua vita, come appunto fa un colibrì, che vola battendo le ali velocissimo e non si posa mai su nulla.

Inaspettatamente deludente, poi, è tutto il discorso improntato sull’Uomo del Futuro, sulla bella ed eccessivamente e inverosimilmente e stucchevolmente (e tanti altri –mente) perfetta Miraijin. No, lì non ci siamo proprio.

A lettura ultimata, questo romanzo mi lascia sospesa a metà tra la meraviglia e la delusione e non so davvero decidere verso quale lato far pendere l’ago della bilancia. Forse non mi resta che sbattere le ali ottanta volte al secondo e restare perfettamente immobile nel mezzo.

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