
“Non sopportavo gran parte dei miei coetanei all’estero, una volta espatriati scoprivano di aver vissuto per venti o trent’anni in mezzo ai barbari. Non importa in che città fossero: Parigi, Barcellona, New York, Pechino, Osaka, e ovviamente la maledetta Berlino. Non importa che lavoro o che ragione profonda si nascondessero dietro la loro nuova vita. La terra natale era disseminata di ladri, burocrati, baciapile, raccomandati e mafiosi. Ma cosa avevano fatto loro per migliorarla? Erano andati via.”
Vivere nella periferia della periferia porta a chiedersi continuamente se partire o restare. Chissà cosa pensano quelli che nascono nelle metropoli, mi sono sempre domandata. Roma, Milano, Parigi. Anche loro si interrogano sull’eventualità, un giorno, di abbandonare famiglia, affetti e terra natìa in cerca di occasioni migliori? O è una prerogativa di chi nasce nel Sud del mondo?
Perennemente sospesi sul filo di un rasoio, si passa l’infanzia credendosi futuri cittadini del mondo, per poi raggiungere l’età adulta e scoprirsi codardi, timorosi di lasciare il noto per l’ignoto. Per cosa, poi? Il lavoro dei propri sogni, una volta su cento, mondanità sfrenata nei primi anni in cui si è fuori, una vita da cosmopolita, fino a quando non ci si stanca? Oppure, forse, accontentarsi anche altrove, tirare a campare, sbarcare il lunario come meglio si può?
Gli abitanti della provincia pugliese si dividono pressoché in due categorie: chi sceglie di andar via non appena raggiunta la maggiore età, e per il paese diventa colui il quale chissà cosa sta facendo al Nord o all’estero, di quali strane professioni si sta riempiendo la bocca, e chi sceglie di restare, e viene rimbeccato dagli espatriati come quello che è rimasto al paese, poverino. Non c’è pace né per chi va, né per chi resta. Un’onta di qualcosa di indefinito resta appiccicato addosso a ognuno.
È una guerra dove in fin dei conti non ci sono vincitori né vinti: solo scelte, che inevitabilmente portano a rinunciare a qualcosa per ottenerne un’altra. La felicità assoluta non esiste e se c’è è effimera, fulminea. Dura il tempo di un viaggio andata e ritorno, un battito di ciglia, che però vale una vita.
Il piatto della bilancia si riempie della somma dei momenti belli che ci fanno credere di aver fatto la cosa giusta, e di quelli negativi, che ci fanno desiderare una vita diversa. Ma non è forse ciò che capita un po’ a tutti? Cercare qualcosa e desiderarne un’altra non appena la si trova?
Claudia e Francesco, i protagonisti dell’ultimo romanzo di Mario Desiati, sono lo zenit e il nadir, due poli opposti del mondo, tanto caparbia l’una quanto indeciso l’altro, l’una libera, l’altro bloccato, da chi poi, se non da se stesso.
Diversi, ma simili in fondo, accomunati da uno stato melanconico che come un velo aleggia su di loro, due anime sole in cerca di qualcuno a cui appartenere, qualcuno per cui possa valer la pena restare, magari, mettere radici, o qualcuno da raggiungere, per sentirsi in qualche modo comunque a casa.
Spatriati è la loro storia: la storia di chi fugge e di chi resta, di chi parte e chi ritorna; ma soprattutto è il racconto di un viaggio dentro se stessi, una discesa nell’anima, per scoprire e portare in superficie ciò che si temeva di mostrare ed essere così, finalmente, liberi.