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SPATRIATI, recensione

“Non sopportavo gran parte dei miei coetanei all’estero, una volta espatriati scoprivano di aver vissuto per venti o trent’anni in mezzo ai barbari. Non importa in che città fossero: Parigi, Barcellona, New York, Pechino, Osaka, e ovviamente la maledetta Berlino. Non importa che lavoro o che ragione profonda si nascondessero dietro la loro nuova vita. La terra natale era disseminata di ladri, burocrati, baciapile, raccomandati e mafiosi. Ma cosa avevano fatto loro per migliorarla? Erano andati via.”

Vivere nella periferia della periferia porta a chiedersi continuamente se partire o restare. Chissà cosa pensano quelli che nascono nelle metropoli, mi sono sempre domandata. Roma, Milano, Parigi. Anche loro si interrogano sull’eventualità, un giorno, di abbandonare famiglia, affetti e terra natìa in cerca di occasioni migliori? O è una prerogativa di chi nasce nel Sud del mondo?

Perennemente sospesi sul filo di un rasoio, si passa l’infanzia credendosi futuri cittadini del mondo, per poi raggiungere l’età adulta e scoprirsi codardi, timorosi di lasciare il noto per l’ignoto. Per cosa, poi? Il lavoro dei propri sogni, una volta su cento, mondanità sfrenata nei primi anni in cui si è fuori, una vita da cosmopolita, fino a quando non ci si stanca? Oppure, forse, accontentarsi anche altrove, tirare a campare, sbarcare il lunario come meglio si può?

Gli abitanti della provincia pugliese si dividono pressoché in due categorie: chi sceglie di andar via non appena raggiunta la maggiore età, e per il paese diventa colui il quale chissà cosa sta facendo al Nord o all’estero, di quali strane professioni si sta riempiendo la bocca, e chi sceglie di restare, e viene rimbeccato dagli espatriati come quello che è rimasto al paese, poverino. Non c’è pace né per chi va, né per chi resta. Un’onta di qualcosa di indefinito resta appiccicato addosso a ognuno.

È una guerra dove in fin dei conti non ci sono vincitori né vinti: solo scelte, che inevitabilmente portano a rinunciare a qualcosa per ottenerne un’altra. La felicità assoluta non esiste e se c’è è effimera, fulminea. Dura il tempo di un viaggio andata e ritorno, un battito di ciglia, che però vale una vita.

Il piatto della bilancia si riempie della somma dei momenti belli che ci fanno credere di aver fatto la cosa giusta, e di quelli negativi, che ci fanno desiderare una vita diversa. Ma non è forse ciò che capita un po’ a tutti? Cercare qualcosa e desiderarne un’altra non appena la si trova?

Claudia e Francesco, i protagonisti dell’ultimo romanzo di Mario Desiati, sono lo zenit e il nadir, due poli opposti del mondo, tanto caparbia l’una quanto indeciso l’altro, l’una libera, l’altro bloccato, da chi poi, se non da se stesso.
Diversi, ma simili in fondo, accomunati da uno stato melanconico che come un velo aleggia su di loro, due anime sole in cerca di qualcuno a cui appartenere, qualcuno per cui possa valer la pena restare, magari, mettere radici, o qualcuno da raggiungere, per sentirsi in qualche modo comunque a casa.

Spatriati è la loro storia: la storia di chi fugge e di chi resta, di chi parte e chi ritorna; ma soprattutto è il racconto di un viaggio dentro se stessi, una discesa nell’anima, per scoprire e portare in superficie ciò che si temeva di mostrare ed essere così, finalmente, liberi.

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IL POMERIGGIO DI UN FAUNO, recensione

Il pomeriggio di un fauno è un romanzo controverso ma estremamente attuale, che ci pone di fronte a un dilemma: a chi credere?

Una donna, Julia, la cui carriera è ormai naufragata, decide di pubblicare un libro nel quale accusa un uomo potente con cui ha lavorato in passato di averla stuprata una notte di tantissimo tempo prima. L’uomo, Marco, si difende con forza, affermando di esserci andato a letto, certo, ma che il loro ménage sia stato del tutto consensuale: semplice sesso tra ubriachi al culmine di una giornata stancante. Nonostante i ricordi siano ormai annebbiati, si dice certo di aver avuto altri incontri con lei e di aver continuato, negli anni successivi, una proficua collaborazione professionale.

Tra l’incudine e il martello si pone l’io narrante, amico di entrambi, il quale sente di voler andare in fondo alla verità, affidandosi non solo ai racconti dei due, ma anche e soprattutto alle sue sensazioni sulla vicenda. Cos’è quel turbamento che prova? Perché non riesce a credere fino in fondo alle versioni che gli vengono fornite?

Siamo nell’epoca di Trump, quando l’America sta per essere sconvolta dalla vittoria del repubblicano, avvenuta contro ogni buonsenso e con grande sgomento di larga parte della popolazione statunitense. Ma è anche il periodo in cui il mondo di Hollywood viene messo sottosopra al grido di #metoo, manifestazione simbolo della lotta contro le molestie sessuali. Registi, produttori, uomini potenti vengono accusati di aver molestato le attrici, le quali, per ottenere ruoli importanti, premi, denaro, si sono sentite costrette a cedere al ricatto. Alcuni hanno giustamente pagato per i loro reati; altri hanno assistito inermi alla distruzione della loro vita e della loro carriera perché impossibilitati a dimostrare di non aver fatto nulla di sbagliato.

Dov’è la verità? Quest’ultima sembra essere la vera protagonista del romanzo, una verità fumosa, poco definita, che rimbalza dall’uno all’altra, adagiandosi poi in una densa zona grigia, dove difesa e accusa si scontrano, fino a distruggere ogni cosa.

James Lasdun, dopo La frattura, si conferma come un autore in cui l’introspezione psicologica dei personaggi gioca un ruolo fondamentale. La moralità di ognuno di essi cammina sul filo di un rasoio, in bilico tra giusto e sbagliato, tra menzogna e verità, mettendo alla prova il lettore e rimettendo in discussione ogni sua convinzione.

UNA FELICITÀ SEMPLICE, recensione

In quel momento, mentre fissavo lo schermo ormai vuoto, non riuscivo a smettere di pensare che le parole, quando raccontano l’amore, qualunque esse siano, non riescono mai a trattenere la violenza di ciò che trasmettono.

Ci sono attimi che cambiano la vita. Ci sono attimi che VALGONO una vita.

In una mattina come tante, Cristina va al supermercato, non sapendo che di lì a poco si ritroverà con un’arma puntata alla schiena. Sono solo pochi istanti di paura, durante i quali Cristina rivive la sua intera esistenza. Le immagini della sua vita con Andrea sfilano davanti ai suoi occhi: le scelte che ha fatto, i luoghi che ha visitato, l’amore immenso che ha provato, il dolore straziante che ha vissuto.

Il momento della rapina diventa uno spartiacque tra la vita di prima e quella di dopo, quella che temeva sarebbe stata bruscamente interrotta. L’istante in cui ha creduto di morire diventa il momento in cui Cristina, invece, rinasce.

La donna che ha passato la vita accanto a un marito perfetto, amorevole e romantico, ma così brillante e dedito al lavoro da oscurarla suo malgrado, da non farla sentire mai abbastanza; la donna che ha scelto anno dopo anno di eclissarsi e di restare in secondo piano rifiorisce, riprendendo in mano le redini della sua esistenza, decidendo finalmente di essere la protagonista della sua stessa vita.

Claudio, l’uomo che l’ha salvata, così diverso da Andrea, cercherà di riportarle il sorriso, grazie alla sua semplicità e al suo spiccato senso dell’umorismo.

Il dualismo nei rapporti è un tema caro a Sara Rattaro. Le protagoniste dei suoi romanzi si trovano spesso alle prese con differenti tipi di amore: da quello estremo e totalizzante a quello più cauto e sereno, da quello tossico a quello romantico. La Rattaro indaga nei sentimenti, porta galla le emozioni più disparate, pone i suoi personaggi di fronte a scelte non sempre facili. Essi affrontano non di rado delle sfide estremamente difficili. Ma nondimeno, porta nelle loro vite un pizzico di magia. La stessa magia che si riverbera nelle pagine e circonda il lettore.

Sara Rattaro ci fa credere sempre che anche dopo la notte più buia arriva il sole, che non è mai troppo tardi per dare una svolta alla propria esistenza, che le nuove occasioni possono trovarsi proprio dietro l’angolo. Che la speranza vince sul dolore, l’amore vince sulla morte. Che c’è sempre, SEMPRE, una nuova magia pronta a illuminare la nostra vita.

Dobbiamo solo permetterle di farlo.

AL TUO FIANCO, recensione

Sin da bambina, ho sempre scherzato sul fatto che sarei dovuta nascere in un’altra epoca, che sono “fuori tempo”, asincrona rispetto al mondo che mi circonda. Questo, però, è solo uno dei motivi per cui la lettura di “Al tuo fianco” mi ha sorpreso così tanto e mi ha piacevolmente colpito.

Aminta e Leonardo, i protagonisti del romanzo d’esordio di Marcello De Pace, sono due personaggi d’altri tempi, catapultati in un mondo frenetico a cui rifiutano di omologarsi, scegliendo di essere loro stessi, sempre e comunque. Veri, autentici e, proprio per questo, così affascinanti. Prediligono un abbigliamento elegante e curato ai risvoltini e alle pance scoperte, la pacatezza dei modi alla frenesia dei gesti, una sana conversazione ai messaggini istantanei fatti di emoticon e parole abbreviate. Appare ancora più evidente, dunque, come siano destinati a conoscersi e ad amarsi, due fari nel medesimo oceano, anime nobili, cuori silenziosi, occhi palpitanti.

In un mondo mordi e fuggi, dove le relazioni appaiono spesso come avventure da collezionare, Marcello De Pace affronta una sfida non facile. Sceglie infatti di raccontare, attraverso Aminta e Leonardo, l’amore vero, puro, quello a lungo cercato e bramato, quello difficile da trovare e da conquistare. Ed è proprio una conquista quella in cui si cimenta il caparbio Leonardo. Da quando incrocia lo sguardo di Aminta per la prima volta, capisce che deve essere sua; ma sa anche che non può affrettare i tempi, non può usare frasi standard da rimorchio assicurato. Aminta è diversa dalle altre, è la donna giusta, è l’amore della vita. Un incontro dopo l’altro, Leonardo saprà farsi apprezzare dalla bella Aminta, si rivelerà pieno di sorprese e capace di stupire, esattamente il tipo di uomo a cui lei vorrebbe abbandonarsi.

Attraverso le fasi della loro storia, l’autore ripercorre quelle che sono le tappe fondamentali di ogni rapporto, le sfide avverse che la coppia affronta, i momenti sereni e quelli più difficili. Racconta i retroscena di una relazione sentimentale, fatta di alti e bassi, di paure e speranze, di scaramucce e riavvicinamenti e, nel farlo, lascia un messaggio importante, svela la chiave di ogni amore, ciò che è davvero fondamentale nella vita di due persone che si amano e che scelgono di condividere l’esistenza: esserci. Esserci sempre, l’uno per l’altra. Anche quando sembra che tutto confabuli in loro sfavore, anche quando gli imprevisti pongono entrambi di fronte a degli ostacoli che rischiano di apparire insormontabili. Il vero segreto di ogni storia d’amore e di ogni rapporto non è che uno: restare al fianco della persona amata. Perché ogni problema, se affrontato insieme, diventa più leggero.

La prima prova letteraria di Marcello De Pace si è rivelato un romanzo estremamente godibile, da leggere d’un fiato; una storia appassionante e coinvolgente a cui l’autore abbina una prosa ricercata e raffinata, mostrando una particolare cura del linguaggio, a cui riserva estrema attenzione.

SEMBRAVA BELLEZZA, recensione

Sembrava bellezza, questo romanzo. E in un certo senso è stato bello, in parte almeno.
Non posso dire in tutta onestà che non sia un buon libro: è scritto divinamente (forse qualche inciso di troppo, sono davvero tanti, ma è un gusto soggettivo), ha una storia interessante, a tratti struggente e dolorosa, come piace a me.
Sembrava bellezza, infatti. Sarebbe potuto essere bello, bellissimo, stupendo, se solo l’autrice non avesse fatto di tutto per rendersi antipatica, strabordando di vanità a ogni pagina.

Se si fosse trattato di un romanzo fiction, di una storia completamente inventata, se l’io narrante fosse stato un personaggio letterario e non persona vera, ne avrei parlato meravigliosamente bene. Ma la Ciabatti ha scelto di raccontare se stessa. Lo ha fatto, tuttavia, vomitando rabbia e risentimento nei confronti di chiunque, elevandosi al disopra di ognuno: familiari, amici, colleghi, detrattori.
Lei è migliore, ripete continuamente, riservandosi complimenti e autoelogi ogni dieci righe almeno, appesantendo la lettura, rendendola quasi insopportabile.

Non si limita a peccare lievemente di vanità, a concedersi una volta o due il gusto di riconoscersi una qualità. Fa di più. Diciamo che se la vanità fosse un sassolino, Teresa Ciabatti sarebbe una montagna. È incapace di ridimensionarsi, di porre un freno alla sua megalomania.

Parla, a un certo punto, della gente che la riconosce per strada, che la ferma, che le dice che è bravissima; racconta della folla che la acclama e risulta davvero poco credibile, poco convincente. Viviamo, purtroppo, in un Paese troppo mediocre affinché gli scrittori possano essere riconosciuti e osannati per strada. Il lettore, dunque, di fronte a cotanta esagerazione non può fare a meno di pensare che se ha mentito su questo, forse ha mentito anche su tutto il resto.

Perdono valore, pertanto, le sue parole struggenti, i suoi drammi. Perde valore la sua storia, che sarebbe stata stupenda al netto del suo ego.

Più tardi ammette che la sua è mitomania. Che finge quando si dà delle arie, che lo fa per nascondere la sua fragilità, la sua inconsistenza. Eppure suona falsa questa sua ammissione di debolezza, è una confessione recalcitrante. Suona finta questa sua umiltà tardiva, poco naturale. Un po’ come quando ci si insulta da sole solo perché si spera che chi ci sta affianco (marito, amica, amante) ci risponda che non è vero e ci elargisca un complimento gratuito.
È durata pochi mesi la mia fama, poi l’oblio, dice. Ma è troppo poco troppo tardi, un cerotto sul Gran Canyon. Non è sufficiente una pietra ad arginare la marea di volte in cui, nelle centocinquanta pagine precedenti, ha ripetuto fino allo sfinimento di essere brava, di essere una persona di successo. Il successo, la fama, il talento, io ce l’ho fatta, io sono la scrittrice, io io io. Un continuo rigurgito di autoreferenzialità.

Non a caso, passano a stento due capoversi quando ricade nell’errore e torna a definirsi superiore, grande scrittrice, buona, mica cattiva come ci ha fatto credere, fingeva.

Anche Annie Ernaux racconta se stessa ed è spietata quando ammette i suoi errori e umile quelle rare volte in cui cede all’indulgenza e sceglie di perdonarsi. Trasudano verità le sue parole, la Ernaux appare autentica, vera, onesta. Nel bene e nel male. Suscita tenerezza, empatia, ammirazione.
Teresa Ciabatti non dosa altrettanto bene durezza e dolcezza, rabbia e perdono. Il risultato è che a ogni pagina, proprio quando il lettore sta per abbandonarsi alla bellezza della storia e della scrittura, viene abbagliato dallo straripamento dell’ego ciabattiano.

Sei brava, Teresa, davvero. Sei un’autrice straordinaria. Ma lascia, ti prego, che siano gli altri a dirtelo.

QUELLA SERA DORATA, #recensione

Se qualcuno mi chiedesse come deve essere secondo me un romanzo, gliene mostrerei uno di Peter Cameron. Va bene uno qualsiasi, questo autore è narratologicamente, letterariamente perfetto. Ma “Quella sera dorata” è qualcosa di più. Ha quel qualcosa che non si può spiegare, che ti incanta a ogni pagina.

Sarà la grazia della sua scrittura, sempre elegante, sempre pulita.
Saranno i dialoghi arguti, mai banali, ma sempre significativi.
Saranno i personaggi, talmente caratterizzati da sembrare vivi. Sembra di vederli, di conoscerli. Dopo poche pagine ne intuisci le mosse, ne comprendi gli umori.

Sai che se Caroline non scende dalla torre dorata in cui si chiude per cercare di dipingere non è semplicemente perché non ha voglia di trascorrere la serata in compagnia di Arden, Adam, Pete e quel nuovo ragazzo spuntato dal nulla. Non è solo perché cerca l’ispirazione per la sua opera, c’è qualcosa in più che la turba. Lo si vede dal modo in cui si affaccia alla finestra, dal bicchiere di scotch in mano, dalla cortese faziosità con cui si rivolge a tutti, dai silenzi lunghi tra una parola e l’altra.

Sai anche che Adam è infelice, non solo perché è vecchio, non solo perché suo fratello non c’è più, non solo perché vuole lasciare libero Pete. È infelice, malgrado le sue battute taglienti. È infelice nonostante la sua allegra ospitalità. È infelice a dispetto della sua loquacità.

Capisci che Arden è a casa senza sentircisi davvero. Che è innamorata senza volerlo. Che è spaventata senza mostrarlo. Che è troppo giovane per vivere così, che ha un passato troppo turbolento per non farle desiderare non solo una quiete stabilità, bensì – finalmente – la felicità.

Capisci che Omar, il ragazzo arrivato all’improvviso a Ochos Rios, è un debole, imprigionato in una vita che non vuole, con un lavoro che non lo soddisfa e una donna che non ama.

Sai tutto questo perché Peter Cameron te lo mostra a ogni riga, a ogni parola. Lui riempie le pagine di pennellate, offre un quadro preciso della situazione e il lettore non può che ammirare quel capolavoro di colori e lasciarsi avvolgere da luci e ombre.
È tutto talmente perfetto, che la trama ha poca importanza: un ricercatore universitario (Omar) vuole scrivere una biografia su un autore deceduto e cerca di ottenere l’autorizzazione dai familiari del defunto scrittore. Bello, ma non è questo che racconta Peter Cameron. Lui racconta tutto il resto, tutto ciò che si cela dietro il tremolio di una mano, una lunga passeggiata, un silenzio imbarazzato, uno sguardo furtivo.

Ed è questa la meraviglia di un romanzo. È questa la meraviglia di Cameron.

L’ACQUA DEL LAGO NON È MAI DOLCE, #recensione

C’è chi ha l’equilibrio per star su un piede solo al modo dei fenicotteri, chi quando balla ha ritmo e sente il tempo della batteria, chi per addizionare e sottrarre non ha bisogno di foglio o calcolatrice e poi ci sono io che so sparare e ho le gambe ruvide e la felpa larga e la testa vuota di un futuro che non conosco

Wow. Wow è quello che continuo a ripetere mentre sfoglio una dopo l’altra le pagine di questo libro, guardandomi di tanto in tanto alle spalle per assicurarmi che non ci sia l’autrice, lì dietro, a spiarmi, a osservare la mia vita.
L’inchiostro usato per questo romanzo sembra essere stato preso direttamente dalle mie vene.
Mi rivedo in Gaia, con la quale non condivido solo una forma di parentela con Antonia la Rossa, ma anche le attese, le paure, l’incapacità di manifestarle, le illusioni e le disillusioni, l’inadeguatezza.

#iosonoGaia quando siede su quel treno che la conduce a scuola, quando guarda il mondo scorrere attraverso il finestrino, ripetitivo e sempre uguale a se stesso, rassicurante e inafferrabile.

#iosonoGaia quando si guarda allo specchio e non si piace. Le orecchie grandi, la pelle chiara. Incapace di definirsi, feroce nelle proprie critiche, in cerca di uno sguardo gentile che lo specchio non rimanda.

#iosonoGaia quando si finge spavalda per integrarsi, quando osserva i comportamenti degli altri e prova a imitarli.

#iosonoGaia quando non riesce a farlo e resta fuori, estranea a chiunque. In superficie quando tutti si tuffano, negli abissi quando tutti galleggiano.

#iosonoGaia quando scopre il tradimento dell’amica più cara, che incurante di lei e di quello che prova, ferisce senza tentennamenti. Mi rivedo (io) a sentire di messaggi scambiati per farsi grasse risate alle mie spalle. Mi rivedo (io) a scoprire che le mie confessioni sono state divulgate, rese pubbliche da chi aveva giurato di custodirle. Mi rivedo (io, non Gaia) a non far nulla e sperare, invano, che gli altri si accorgano di quanto sta accadendo e prendano le mie difese, ma gli altri sanno e non difendono. Mi rivedo (io) a girare i tacchi, allontanarmi da chi ha goduto nel far del male, e piano piano ricostruirmi.

#iosonoGaia quando, una dopo l’altra, imparo a conoscere “tutte le me che sono”.

Giulia Caminito è una voce potente, sicura, che risuona a lungo anche a lettura conclusa. Con “L’acqua del lago non è mai dolce” scrive uno dei romanzi più belli di sempre e lo fa con una cura per il linguaggio, con una devozione per le parole, che incanta e stordisce.
È precisa, feroce, accurata. Non fa sconti, né alla lingua, né ai personaggi. Ne racconta le brutture e le storture, i limiti e i difetti, senza filtri e senza vergogna. Libera come la vera scrittura dovrebbe essere.

Che libro, questo, ragazzi.
Che libro.

È QUELLO CHE TI MERITI, #recensione

“Le vite segrete si annidano nei piccoli particolari”

Il romanzo di Barbara Frandino è entrato nella mia vita come un treno. Il Q-Train di Van Wieck, per l’esattezza, il dipinto raffigurato in copertina. La motivazione l’ho già data in passato: qualche anno fa, per la casa editrice Edit@, è uscita una raccolta di racconti, dal titolo “Transizióne, la Ri(e)voluzione di una donna”, in cui è stato pubblicato un mio scritto, cosa che mi ha reso molto felice.

È quello che ti meriti è arrivato come un treno, appunto, e come un treno l’ho letto.

Questa piccola meraviglia è in grado di catturarti sin dalle prime pagine, con una semplicità sorprendente. Tu sei lì a sbocconcellare qualche parola e senza rendertene conto sei in trappola, invischiato tra le righe che ormai hai divorato e sei già a metà libro.

Ma quando le hai lette tutte quelle pagine? Un attimo prima fissavi quella bellissima copertina e un attimo dopo stai vivendo la vita di Claudia, stai pensando i suoi pensieri, respirando i suoi respiri, parlando con la sua voce di donna ferita, delusa, tradita. E colpevole. Rea di non aver soccorso suo marito quando lui ha avuto un infarto. Rea di aver esitato, di aver perso istanti preziosi. Di essersi messa a riordinare la casa, invece di correre in ospedale seguendo l’ambulanza. Perché, vi chiederete? Leggetelo, non ci impiegherete molto.

Merito anche dei paragrafi brevissimi, mordi e fuggi, schegge affilate che penetrano nella carne, non riuscirete a staccarvi da questa storia. Garantito.

Una storia dove i piccoli gesti quotidiani raccontano un mondo intero, dove i silenzi valgono più delle parole.

Me ne sono innamorata. Questo romanzo è meraviglioso.

I PROVINCIALI, #recensione

Le dinamiche di una graziosa cittadina di provincia vengono sconvolte dall’arrivo del plurimiliardario Philip Hadi e di sua moglie Rachel, i quali dapprima sembrano trincerarsi nella loro prestigiosa villa circondata da sistemi di allarme pronti a scattare al minimo movimento, in seguito diventano parte integrante e fin troppo attiva della società. L’ingente disponibilità economica di Philip viene prontamente messa in evidenza nel momento in cui decide di diventare il benefattore dei cittadini e di prendere in mano le redini della città, divenendo in breve tempo unico detentore del potere. Che sia solo per mero altruismo, come afferma, o che prevalga invece la sua voglia di supremazia, sarà il lettore a scoprirlo.

Ho acquistato questo libro attratta dall’incantevole copertina e dal nome di Jonathan Dee (apparso più volte in lizza tra i meritevoli del Nobel), il cui stile a mio avviso richiama quello del suo omonimo Franzen. Ho finito, però, con l’apprezzare anche il romanzo stesso, anche se devo ammettere che avrei preferito un maggiore coinvolgimento dei personaggi.
Tuttavia, la loro caratterizzazione appare perfetta e mai stereotipata e questo fattore, unito alla gradevolezza della scrittura, rende questo romanzo davvero piacevole.

#leBrevi, LETTURE DI NOVEMBRE

Quello appena trascorso è stato forse il mese in cui ho intrapreso il maggior numero di letture entusiasmanti. Mi sono piaciuti quasi tutti i libri, con due sole eccezioni. Continuare a leggere per sapere quali.

I CIELI DI PHILADELPHIA è meraviglioso, nella mia top five del 2020. Due sorelle che non potrebbero essere più diverse tra loro. Una è una poliziotta, l’altra una prostituta tossicodipendente che sparisce nel nulla proprio quando si indaga su un killer che prende di mira le donne di strada. Sublime.

BORGO SUD. Cos’altro vi posso dire, oltre al fatto che è scritto da una delle migliori autrici italiane in circolazione? L’Arminuta e Adriana sono ormai adulte, ma il loro legame resta immutato, così come le dinamiche del loro rapporto. Gli ho dedicato un post a parte. Lo trovate più giù.

De LA SPINTA non posso ancora dirvi molto, perché uscirà a gennaio. Sappiate solo che vi terrà inchiodati alle pagine. L’ho adorato!

LE DIECI REGOLE PER UNA VITA GRATIFICANTE è un manuale utile e molto scorrevole, che vuol dare dei suggerimenti su come raggiungere gli obiettivi della vita e abbandonare schemi mentali che ci incatenano al suolo, impedendoci di spiccare il volo.

AL DIO SCONOSCIUTO ha un inizio alla “Cuori ribelli”: un giovane parte alla conquista delle terre di nessuno, lande desolate che è possibile rivendicare come proprie semplicemente occupandole. Del noto film con Cruise e la Kidman, però, ha in comune solo questo. Steinbeck è un maestro nel raccontare il legame dell’uomo alla natura, le credenze, le tradizioni e le superstizioni di chi dedica tutto se stesso al sogno di sentirsi parte di un mondo.

OGNI NOSTRA CADUTA era sul mio scaffale da molto tempo, ne attendevo la lettura con curiosità, ma devo dire che mi ha deluso un po’. Alla morte della madre, una giovane donna si mette alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto. Preda di ansie e attacchi di panico, si butta a capofitto in situazioni al limite e relazioni instabili, senza alcuna capacità di discernimento. Letto a fatica.

SENZA CODA si legge in un battito di ciglia ed è bellissimo, feroce e tenero allo stesso tempo. Protagonista un bambino con la passione per le code delle lucertole, figlio di un criminale. Vi dico solo che mi è piaciuto persino di più di “Atti osceni in luogo privato”. E ho detto tutto.

L’idea di base di STORIA DI DUE ANIME è geniale. Sono tre racconti legati da un filo conduttore e il libro può essere letto seguendo due ordini differenti, che sconvolgono completamente la storia. Tutto molto bello, se non fosse che il romanzo stenta davvero a decollare. Non sono riuscita ad affezionarmi a nessun personaggio né a restare coinvolta nelle loro avventure. Per me è un no, ma sono curiosa di sapere cosa ne pensate voi.